Negli anni Quaranta Mingus si propone come uno dei propugnatori del be bop, ma allo stesso tempo non si fa ingabbiare nella ristretta tela di quel movimento artistico, ricercando da subito un suo personalissimo modo di intendere e interpretare il lessico jazzistico. La sua musica risente delle innumerevoli influenze della tradizione musicale americana, gospel song e improvvisazione libera, e di quella europea, musica da camera, sinfonica e spagnola. La tendenza naturale del contrabbassista alla continua ed indefessa sovrapposizione di espressioni diverse, più delle volte portata al limite del parossismo, la si può correlare alla sua condizione di figlio di un uomo di colore e di una donna per metà pellerossa e per l’altra cinese, nel contesto dell’America “bianca”. Insomma, Mingus era tanti elementi presenti in una stessa persona, a metà strada fra tradizione e sperimentazione; elementi fatti suoi, con una pregevole tecnica applicata al contrabbasso, elaborati e più delle volte rinnegati. Non sorprende quindi che, nonostante negli anni sia stato additato come antesignano del free jazz, egli stesso non si sentì mai parte di quella corrente musicale, percependo i protagonisti di tale movimento “del tutto estranei”, pur anticipandone “la vibrata protesta, l’appassionato impegno sociale e la predilezione per discordanti improvvisazioni collettive…”∗. Non sfugge, all’ascoltatore più attento, la presenza nei suoi dischi di elementi tipici del linguaggio di quello che sarà il “nuovo jazz” degli anni Sessanta e Settanta: il continuo sviluppo musicale, la sofisticata improvvisazione collettiva e gli espliciti e corrosivi messaggi di denuncia politica e sociale nei confronti dell’iniquo sistema razziale e segregazionista al potere negli Stati Uniti in quegli anni.
Nella parte finale degli anni Settanta, quando arriva a Roma, Charles Mingus si trova in Europa per una serie di concerti. Durante il soggiorno nella Capitale, nonostante la visione sul set di alcune scene girate di Todo Modo, compone in pochi giorni una musica oscura e, come nel suo stile, in certi momenti indecifrabile, che suscita contraddittorie reazioni nell’ascoltatore. Tanto che Elio Petri, nonostante le insistenze del produttore Daniele Senatore, decide alla fine di non utilizzare il materiale composto ed inciso da Mingus, considerandolo non adatto alla pellicola. Il regista, così, si affida per la realizzazione finale dalla colonna sonora al puntuale e qualitativo contributo del Maestro Ennio Morricone, chiamato d’urgenza a sostituire il musicista americano. Il film, alla sua uscita nelle sale cinematografiche, viene osteggiato dalla critica e dagli organi di potere, sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista, fino al sequestro della pellicola ad un mese dalla prima proiezione. Il sequestro e l’omicidio del Presidente della Dc, Aldo Moro, avvenuto qualche mese dopo, preconizzato in maniera non esplicita nella pellicola, ne sancisce, per anni, il definitivo oblio.
Di quei giorni passati dal leggendario contrabbassista e compositore a Roma per l’incisione della colonna sonora di Todo Modo, rimane, nonostante i suoi proverbiali eccessi di umore, aggressivi e spesso violenti, l’amicizia stretta con Pepito Pignatelli, proprietario del Music Inn, dove si esibisce insieme al suo gruppo e spesso suona il pianoforte fino a tarda notte, davanti a pochi astanti, “divagando fra antichi standard pescati per lo più dal songbook di Duke Ellington, uno dei suoi miti”∗. La colonna sonora scritta da Charles Mingus per quel film rinnegato da critica e organi politici non andrà perduta, il contrabbassista la pubblicherà come lato B di un suo disco del 1978∗, col titolo esplicativo di “Music For Todo Modo“.
Paolo Marra
∗ Arrigo Polillo (Jazz – La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana – Mondadori, 2015)
∗ Marco Molendini (Pepito Il principe del Jazz – Minimum Fax, 2022)
∗ Cumbia & Jazz Fusion (1978 – Atlantic)
Nell’immagine: Charles Mingus al Music Inn di Roma durante l’intervista col giornalista Gianni Minà