Chet Baker in Italia

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Chet Baker è stato uno dei pochi jazzisti americani ad instaurare uno stretto rapporto con musicisti e pubblico italiano. Un legame che andava oltre l’aspetto squisitamente artistico, coinvolgendo aspetti di autentica e profonda umanità che gli altri intorno lui percepivano fortemente saldati alla sua minimale quanto poetica e fragile espressione musicale.

Nelle lunghe residence del trombettista in Europa si celano motivazioni molto simili per sostanza a quelle di diversi suoi colleghi afro-americani arrivati nel Vecchio Continente, anche se nel suo caso viene a mancare, naturalmente, la connotazione razziale. Rimane però il fondo di pregiudizio e di chiusura mentale operata da una larga fetta dell’establishment statunitense nei confronti della minoritaria scena jazzistica, composta in prevalenza da neri e musicisti provenienti da background problematici, ai margini della cosiddetta società del “consumo”. Riassume in maniera esplicativa questo concetto lo stesso Chet Baker – “In Europa il Jazz è considerato come un’arte, in America è un diversivo”. Ma c’è dell’altro, e riguarda ancora più da vicino la pregiudiziale nei riguardi dell’artista “Chet” da parte del pubblico americano, incentrata sulla figura di “ribelle drogato” e meno, o per niente, sulla natura straordinariamente poetica del suo saper “cantare”, con la tromba e la voce, l’essenza intima del jazz. Il pianista Enrico Pieranunzi, che per diversi anni ha collaborato a stretto contatto col trombettista, a proposito di questo aspetto ha dichiarato – “La musica in Chet era molto più profonda e forte di tutta la droga che ha preso. È grazie alla musica che riuscì a superare vicende tristemente note… per questo bisognerebbe occuparsi molto di più della sua musica che non dei suoi problemi personali” – e continua – “Chet negli Stati Uniti era considerato un drogato che suonava la tromba mentre in Europa era un meraviglioso artista con dei problemi personali”.

Il trombettista dell’Oklahoma arriva per la prima volta in Europa nel 1955, per una serie di concerti, tra cui in Italia a Roma, Milano, Firenze e Perugia. Reduce dalla vittoria del premio come migliore strumentista nel sondaggio della rivista Down Beat, collabora in Italia, nel periodo tra 1959 e il 1962, con diversi solisti e formazioni della scena jazz: Gianni Basso, Franco Cerri, Glauco Masetti, l’orchestra del compositore Ezio Leoni, Amedeo Tommasi, il “Quintetto di Lucca” (composto da Giovanni e Vito Tommaso, Antonello Vannucchi, Giampiero Giusti, Gaetano Mariani). Partecipa, inoltre, alle registrazioni delle colonne sonore composte da Piero Umiliani per le pellicole “L’audace colpo dei soliti ignoti” (1959), “Smog (1962) e “Intrigue to Los Angeles (1964) e collabora, inoltre, con Ennio Morricone.

I problemi personali legati alla tossicodipendenza gli procureranno l’arresto a Viareggio nell’agosto del 1960 e l’espulsione da Londra e problemi analoghi in Francia e Spagna. Ritornato in Italia nel 1975, Chet Baker incide decine di dischi, in particolare con l’etichetta Philology dell’amico Paolo Piangiarelli, e tiene numerosi concerti, tra cui a Roma al Music Inn, Centro Jazz St. Louis e Mississippi, con una pleiade di giovani jazzisti italiani: Franco D’Andrea, Nicola Stilo, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra, Massimo Urbani, Maurizio Giammarco, Riccardo Del Fra, Luke Flowers, Furio Di Castri, Danilo Rea, Giampaolo Ascolese, Carla Marcotulli, Nell’intervista rilasciata nel 1982 a Roberto Sasso (Fare Musica) il trombettista, di ritorno da New York a Roma, esprime un parere positivo nei riguardi dei jazzisti italiani – “Ci sono molti bravi musicisti che possono andare in America se vogliono, sono molto preparati e bravi…”.

Tra le innumerevoli produzioni discografiche realizzate dal trombettista in Italia, due spiccano per qualità della musica prodotta e aneddoti legati al suo atteggiamento nei confronti dei colleghi italiani. Tra dicembre del 1979 e il gennaio del 1980 Chet Baker incide il disco “Soft Journey“ con il pianista Enrico Pieranunzi, accompagnati dal contrabbassista Riccardo Del Fra e il batterista Roberto Gatto. Ammaliato dall’universo espressivo del trombettista, Enrico Pieranunzi compone il materiale presente nel disco con l’idea di renderlo il più adatto possibile alla voce unica della tromba di Baker. Il pianista racconta – “Chiesi a Chet Baker di scrivere le note di copertina del disco. Pensai però che non l’avrebbe mai fatto. Ed invece, dopo diverse settimane, quasi a ridosso della pubblicazione dell’album, ricevetti una telefonata in cui Chet mi diceva che stava per partire e che sarei dovuto andare all’Hotel Angloamericano vicino Piazza Barberini (Roma) dove avrei trovato il manoscritto colle note per Soft Journey”.

Qualche anno dopo, nel 1987, i due si ritrovano in studio insieme al contrabbassista Charlie Haden e il batterista Billy Higgins per l’incisione di Silence. Nonostante le cattive condizioni di salute, il disco segna un’altra straordinaria performance in studio di questo poeta “maledetto” del jazz moderno, capace con poche note di raccontare una storia. Pieranunzi durante l’incisione trascrive per Baker l’assolo di tromba presente nel brano Silence, da parte sua il trombettista alla fine delle registrazioni lascia sul pianoforte una sentita dedica di ringraziamento al suo amico e collega.

Qualche mese prima del decesso, avvenuto ad Amsterdam il 13 maggio del 1988, Chet Baker è di nuovo sul palco, stavolta a Torino al Teatro Carignano, accompagnato da un quintetto d’eccezione: Enrico Rava, Franco D’Andrea, Massimo Urbani, Giovanni Tommaso e Roberto Gatto; Il concerto è l’ennesima serata di note sussurrate, lasciate dal trombettista al pubblico italiano come ultimo ringraziamento per l’affetto e la stima mostratagli in tutti quegli anni difficili.

Paolo Marra

Nella foto il trombettista Chet Baker insieme al pianista Amedeo Tommasi

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