Diversi musicisti afroamericani nell’arco degli anni Cinquanta e Sessanta si spostano nel Vecchio Continente; nonostante le motivazioni di tale decisione siano molteplici, presentano nell’insieme un tratto comune: l’esigenza di allontanarsi da un Paese, gli Stati Uniti, dilaniato dal perpetuarsi della segregazione razziale e da violenti scontri e manifestazioni. Ne deriva da parte dei jazzistici il bisogno di sviluppare una forma d’arte che possa emanciparsi dal senso di inferiorità imposto dalla società americana. In sintesi, in Europa a differenza degli Stati Uniti il giudizio di pubblico e critica non veniva edulcorato dal colore della pelle, facendo di converso della qualità musicale espressa l’unico metro di giudizio applicabile. Per i jazzisti afroamericani tale condizione rappresentava una conquista intellettuale, artistica e morale senza precedenti, generatrice di approcci musicali disinibiti perfettamente integrati con la cultura “libertaria” dei paesi ospitanti.
Gli esempi in merito sono diversi: il contrabbassista be bop Oscar Pettiford dal 1958 si stabilisce a Baden-Baden, città della Germania, e in seguito nella capitale danese, Copenaghen, dove muore nel settembre del 1980. Nei primi anni Sessanta il sassofonista Dexter Gordon si traferisce in Europa, in particolare a Copenaghen e a Parigi dove collabora nell’album “Our Man in Paris” (1963) con un altro espatriato di lusso, il pianista Bud Powell. Quest’ultimo visse dalla fine degli anni Cinquanta fino al 1963 nella capitale francese suonando, nonostante l’aggravarsi della malattia mentale, con il trio formato da Kenny Clarke e Pierre Michelot. Altri musicisti americani espatriati in Europa furono il trombettista Freddy Hubbard, il pianista Kenny Drew, il batterista Billy Higgins e il vibrafonista Bobby Hutcherson.
Degno di nota è stato il soggiorno di Miles Davis a Parigi nel 1949 insieme a Tadd Dameron, Kenny Clarke e James Moody. Nella autobiografia (Miles Davis con Quincy Troupe – Minimux Fax Musica) il trombettista scrive – “Non mi ero mai sentito così. Era la libertà di essere in Francia ed essere trattato come un essere umano, come qualcuno di importante”. Nel 1957 il trombettista americano ritornerà nella città della sua amata Juliette Gréco per l’incisione della colonna sonora del film “Ascenseur pour l’echafaud”.
Molti di questi jazzistici, in particolare a partire dagli anni Settanta, si esibiscono in giro per l’Europa stabilendosi per lunghi periodi in determinate città nelle quali trovano opportunità di ingaggio in locali e jazz club. È indicativo il fatto che, mentre nel loro paese d’origine questi musicisti fanno fatica ad imporsi al grande pubblico , come era avvenuto, d’altronde, per diversi decenni, in Italia, dove si sta affermando la scena mainstream dei “nuovi leoni”, essi diventino in poco tempo i beniamini dei giovani ascoltatori di jazz, vogliosi di avvicinarsi ad un genere musicale rimasto per troppi anni appannaggio di pochi “eletti”. Tra questi troviamo Sal Nistico, Kenny Clarke, Johnny Griffin, Dexter Gordon, Lee Konitz e Art Farmer.
Di particolare rilievo è la vicenda di quest’ultimo: a metà degli anni Sessanta si stabilisce a Vienna, dove si sposa con una donna del posto e mette su famiglia. Nella città sul Danubio il trombettista si avvicina alla musica classica, eseguendo partiture di Bach e Haydn, collaborando al contempo con musicisti arrivati da tutto il mondo nel Vecchio Continente. Incide nel 1980 insieme al quartetto di Enrico Pieranunzi, con Massimo Urbani, Furio Di Castri e Roberto Gatto, l’intenso e lirico album “Isis”, presso gli Studi Emmequattro dell’etichetta Edipan di Roma. D’altra parte sono proprie le etichetta italiane specializzate in jazz – come la Horo di Aldo Sinesio e la Red Records di Sergio Veschi – a dare nuova visibilità ai jazzisti americani con contratti discografici in qualche modo remunerativi sotto l’aspetto economico.
Se il jazz è potuto arrivare fino a noi è proprio grazie all’accoglienza che, fin dai primi anni Cinquanta, i musicisti d’oltreoceano hanno trovato in Europa. Un legame mai finito, foriero di imprevedibili scoperte.
Paolo Marra
Nella foto, tratta dal libro “L’Italia del Jazz (Stefano Mastruzzi Editore), il sassofonista Lee Konitz con Gianni Oddi (sinistra) e Baldo Maestri (destra)
Collegamenti esterni:
Isis – Enrico Pieranunzi · Art Farmer
Tune Down – Lee Konitz