La scena del jazz romano oltre ad allevare e far crescere al suo interno musicisti in grado di conquistare a piccoli passi la notorietà internazionale ha saputo accogliere e assimilare il bagaglio esperienziale di prestigiosi personaggi della storia del jazz. Sostanzialmente si è innescato, in particolare modo dagli anni Settanta, un processo di scambio tra generazioni diverse di strumentisti nel quale ognuna delle parti ha potuto beneficiare sotto il profilo tecnico, creativo ed umano di stimoli, approcci, idee e visioni diversificate da poter applicare al proprio lessico jazzistico. In sostanza, il jazz italiano può evolversi definitivamente grazie all’unione culturale che si va gradualmente concretizzando tra musicisti europei e americani.
Questo fenomeno che si palesa in quel periodo in Italia può essere raffrontato con quanto era accaduto nel periodo seguente alla Seconda Guerra Mondiale in Francia. Diversi musicisti afro-americani d’oltreoceano, infatti, avevano trovato nella scena artistica parigina una seconda patria: Bud Powell, Sidney Bechet, Kenny Clarke solo per citarne alcuni. L’accoglienza loro riservata dalla comunità culturale francese è da subito calorosa in conseguenza della affinità elettiva tra la tensione verso il nuovo dell’espressione jazzistica e il linguaggio delle nuove tendenze letterarie e filosofiche che si vanno concretando in Europa. I jazzisti accolti come veri e propri beniamini si trovano di fronte ad una realtà agli antipodi rispetto a quella vissuta nel loro paese, dove il pregiudizio razziale da lungo tempo li ha relegati in una congrega di musicisti emarginati e privati di qualsiasi velleità artistica non in linea con la figura di entertainer cucitagli addosso dall’uomo bianco.
Tra la fine degli Sessanta e gli inizi degli anni Settanta a Roma si respira un’aria di fermento artistico non dissimile nei tratti essenziali a quella parigina del secondo dopoguerra, fatta di rituali dissacratori, immaginifici, ricerca di alternative modalità espressive in cui il sottofondo esotico-arcaico della musica afroamericana si mescola con le avanguardie e la musica euro-colta. I jazzisti statunitensi si spostano per brevi e lunghi periodi nel Vecchio Continente tenendo concerti e incidendo dischi; é inevitabile per loro entrare in contatto e rimanere affascinati dalla ricca e variegata eredità culturale e artistica europea, dalla musica contemporanea e sinfonica, dalle tradizioni popolari, il melodramma e l’Opera. Ancora una volta i musicisti afroamericani si trovano immersi in una condizione svincolata dal condizionamento antropologico dovuto alla contrapposizione tra matrice bianca e nera alla base dell’intero corso del jazz statunitense, con ovvii risvolti ideologici, politici e sociali. Inoltre, gioca a favore di un approccio maggiormente libero la caratteristica intrinseca della cultura europea di non porre una netta cesura storica tra rinnovamento e passato; l’urgente necessita del musicista dell’ultima leva si concreta unicamente nella ricerca di una comunicativa diretta e personale e per quanto possibile autentica. Certo anche l’Europa in quegli anni è attraversata da forti tensioni politiche; l’Italia ne sarà investita in negativo per tutto il decennio degli anni Settanta. Un atteggiamento di rivolta nei riguardi delle istituzioni che troverà nel free un vettore di “dissacratorie” e “anarcoide” avanguardie artistiche, tanto ricche di intelligente e acuta analisi e denuncia del sistema quanto, in molti casi, prive di reale autenticità nelle motivazioni di fondo.
Il critico musicale Arrigo Chicken a proposito delle ragioni celate dietro la “cordiale accoglienza fatta in Europa ai musicisti di jazz”, nel libro “Jazz – La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana (Edizioni Oscar Mondadori) scrive – “Alcune riguardano tutti i jazzmen, i giovani come gli anziani, e sono sempre esistite: assenza di atteggiamenti razzisti nel pubblico, rispetto atavico per l’arte in ogni suo aspetto, curiosità per una musica che conserva ancora, per molti, il fascino delle cose vagheggiate da lontano, esotiche o comunque non familiari”.
Altre motivazioni alla base dello spostamento dei jazzisti statunitensi in Europa possono essere rintracciate nella ricerca di nuove opportunità e stimoli e, al di là delle motivazioni razziali riguardanti in maniera specifica la comunità afro-americana, in diversi casi l’allontanamento forzato dalla patria scaturisce dalla voglia di allontanarsi dal letale circolo vizioso delle droghe in cui diversi di loro sono coinvolti e che, negli anni precedenti, aveva privato la scena jazz statunitense di eccellenti e dotati strumentisti. Gli ingaggi nei jazz club cittadini permettono a questi musicisti di trovare una certa stabilità economica (il cachet è mediamente lo stesso per tutti, circa 100 dollari a serata), di ritagliarsi nuove fette di pubblico giovanile interessato alla loro musica ed entrare in contatto coi musicisti in erba che fanno capolino tra le persone convenute ai concerti. Infatti, nella maggioranza dei casi le sezioni ritmiche vengono formate da musicisti locali, spesso alle loro prime esperienze sul palco. Il Blue Note di Pepito Pignatelli (primo jazz club ad essere inaugurato a Roma) in un solo anno di attività, tra il 1970 e il 1971, ospita molti dei jazzisti trasferitesi in Europa in quegli anni: Kenny Clarke, Dexter Gordon, Lou Bennett, Art Farmer, Mal Waldron e Phil Woods. Questi vengono accompagnati da giovani musicisti italiani, come Franco D’Andrea, Giovanni Tommaso, Marcello Melis, ma anche da strumentisti della scena jazz europea: Gordon Beck, Daniel Humair, Henry Texier e altri. La costruzione di una rete di scambio-incontro tra i musicisti stranieri e italiani coinvolge in quel periodo altre scene jazzistiche italiane che si vanno definendo e arricchendo di nuovi nomi: il Capolinea e il Jazz Power di Milano e lo Swing Club di Torino.
A Roma qualche anno dopo, nel gennaio del 1974, viene aperto da Pepito Pignatelli il Music Inn; una pleiade di jazzisti passeranno per tutti gli anni Settanta e Ottanta per la cave romana di Largo dei Fiorentini: John Griffin, Sal Nistico, Charles Mingus, Art Farmer, Bill Evans, Dexter Gordon, George Coleman, Alvin Jones e moltissimi altri. Tra questi, anche il compositore e clarinettista Bill Smith. Come nel caso di altri esponenti statunitensi, Bill Smith, dalla fine degli anni Cinquanta, si reca in Italia in diverse occasioni , per restarvi anche per lunghi periodi. Collaboratore in California del pianista Dave Brubeck (both, years ago, had been pupils of the French composer Darius Milhaud) e del batterista Shelly Manne, il clarinettista in Italia suona col trombettista Nunzio Rotondo e scrive composizioni e arrangiamenti per l’orchestra di Armando Trovajoli. Al Music Inn, dove sovente si esibisce, conosce, grazie a Pepito Pignatelli, il giovane pianista Enrico Pieranunzi. Entrambi hanno un background radicato nella musica contemporanea europea (Bill Smith performs scores of classical music under the name of William O. Smith). Tra il 1977 e il 1980 i due musicisti incidono insieme gli album in duo, trio e quartetto “Sonorities” e “Colours”, rispettivamente con Giovanni Tommaso e Pepito Pignatelli e altri due giovani jazzisti della scena romana, Bruno Tommaso e Roberto Gatto.
Paolo Marra