Le prime scuole con un indirizzo dedicato al jazz nascono in Italia intorno alla metà degli anni Settanta; questo dato ci dà la misura di quanto il fenomeno della didattica jazzistica sia relativamente recente nel nostro Paese. Non fanno eccezione gli Stati Uniti, infatti, è solamente tra gli anni Ottanta e Novanta che nelle università e college americani si assiste ad un exploit di corsi dedicati agli studi jazzistici. Nei decenni antecedenti a tali periodi era impensabile per un giovane intraprendere la carriera di musicista di jazz attraverso un percorso scolastico, e tantomeno studiando a casa su testi specificamente dedicati allo studio della notazione, armonia e improvvisazione jazzistica. Non era un problema di accesso a determinate strutture scolastiche o di disponibilità economiche, semplicemente non esisteva ancora un circuito accademico preposto alla formazione nel campo jazzistico.
La passione per il jazz, la molla essenziale per dedicarsi ad una “professione” poco remunerata e priva di velleitarie finalità di prestigio e fama, andava assecondata con l’ascolto attento quanto assiduo dei pochi dischi in circolazione dei grandi Maestri della musica afro-americana. Oltre a ciò, la militanza nelle bande di paese, in occasione di feste e ricorrenze, si presentava per l’aspirante musicista come un’essenziale esperienza pedagogica al fine di definire la propria individualità rispetto ai ruoli specifici degli altri. Il passo successivo era la lenta, quanto difficoltosa, creazione di una rete di conoscenze finalizzata a consentire l’accesso ad opportunità “lavorative” continuative in spazi sufficientemente idonei. Ed è qui che entra in gioco il ruolo fondamentale giocato della jam session. Vera scuola di vita, tale situazione estemporanea dava modo all’aspirante musicista di tastare il polso del mondo “reale” oltre le solitarie performance casalinghe, per misurarsi e misurare il gap tecnico accumulato; durante una jam session, per crescere e ottimizzare le proprie qualità si rendeva necessario rimanere in continuo ascolto dell’altro, del suo modo di suonare e non suonare, di esprimere ed interpretare in tempo reale l’idea racchiusa in un brano. Dobbiamo però aggiungere, per chiarezza, che non tutti gli aspiranti jazzistici avevano l’occasione, o la fortuna, di poter intraprendere un percorso di questo tipo; spesso le condizioni sociali o economiche non permettevano al giovane musicista di avere denaro sufficiente all’acquisto della strumentazione utile a suonare in pubblico o a coprire le spesse necessarie per un eventuale trasferimento in altre città. In altri casi, l’aspetto puramente caratteriale si rivelava, nel lungo periodo, un freno alla crescita artistica del giovane musicista.
Il cambiamento di orizzonti per quanto riguarda la didattica jazzistica in Italia avviene con la fondazione, a metà degli anni Settanta, della Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma. Aperta a tutti senza distinzione di appartenenza sociale o di preparazione teorica, la “Scuola di Testaccio” si caratterizzava per corsi semi-gratuiti di improvvisazione jazzistica e composizione sperimentale, studio degli strumenti tradizionali, storia della musica e lezioni di etnomusicologia, tenuti da un collettivo autogestito di musicisti formato, tra gli altri, da Bruno Tommaso, Enrico Pieranunzi, Maurizio Giammarco, Tommaso Vittorini, Martin Joseph, Giancarlo Schiaffini, Michele Jannaccone, Eugenio Colombo, Roberto Gatto, Paolo Damiani.
Nello stesso periodo Mario Ciampà ha l’idea di aprire una scuola di musica all’interno del jazz club Saint Louis, di cui è proprietario. I corsi pomeridiani vengono tenuti dagli stessi musicisti che abitualmente si esibiscono la sera nel locale romano. Nel 1996 Ciampà decide di chiudere definitivamente la parte relativa al jazz club del Saint Louis per concentrarsi a tempo pieno sull’attività didattica.
Con la direzione di Stefano Mastruzzi,, a partire dal 1998, il Saint Louis si affermerà come una delle più importanti scuole di musica in Europa per la qualità dell’insegnamento profuso e la visione trasversale aperta a nuovi contesti, iniziative e generi musicali. Anche in questo caso tra gli insegnanti presenti nei programmi didattici e nei seminari organizzati annualmente troviamo eccelsi jazzisti con anni di esperienza alle spalle: Enrico Pieranunzi, Bruno Tommaso, Roberto Gatto, Amedeo Tommasi, Massimo Urbani, Marcello Rosa, Maurizio Giammarco, Rosario Giuliani, Umberto Fiorentino, Enrico Rava, Eddy Palermo e tanti altri.
Col diffondersi delle scuole di musica a Roma e in Italia si va delineando la figura dello strumentista-insegnante e dello studente-musicista più improntata alla tecnica applicata allo strumento, al virtuosismo, e meno, per certi versi, all’invenzione istintiva nel milieu artistico della “strada”, degli spazi alternativi e dell’improvvisazione svincolata da cliché imparati a memoria. In virtù di questo, ad iniziare dagli anni Ottanta, si delinea la figura del musicista diplomato al conservatorio prestato per vocazione al jazz che, nonostante la scelta fatta, non rinuncia a mantenere un filo diretto con situazioni concertistiche di stampo classico (negli anni precedenti c’erano state poche eccezioni, tra queste Enrico Pieranunzi e Amedeo Tommasi). È una novità, figlia in qualche modo del superamento della chiusura del mondo accademico all’insegnamento del jazz (salvo la breve esperienza, nel biennio 1971/72, del corso di jazz affidato a Giorgio Gaslini al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma), in sintonia con le rinnovate esigenze del jazzista contemporaneo di avere a disposizione un ventaglio più ampio di opzioni compositive ed esecutive da utilizzare in prospettiva di una maggiore continuità professionale e sperata stabilità economica. Si avvisa in tale carattere dello strumentista una continuità con la cristallizzazione delle formule e codici del jazz, in particolare mutuate dal be-bop, nel solco della forma tramandata della musica classica, adottata nei vari programmi e laboratori di insegnamento del jazz. Se la standardizzazione delle forme jazzistiche ha dato il via a una modellazione dei contenuti a danno dell’originalità, di converso quando questi sono stati integrati con metodologie alternative e innovative di insegnamento teorico e pratico si è assistito ad una maggiore crescita degli studenti in termini di competenze al servizio dello slancio creativo.
In ultima analisi, bisogna constatare come entrambi gli approcci formativi, didattico e pre-didattico, abbiano potuto, in contesti e periodi diversi, originare una pleiade di jazzistici di alto livello in grado di affrontare le sfide del presente e del futuro, spesso integrandosi fra loro. Le varie collaborazioni tra generazioni diverse, con background formativi nella maggiore dei casi agli antipodi, ci induce ad una risposta positiva sulla validità dell’istruzione jazzistica come essenziale fondamento del jazz contemporaneo.
Paolo Marra