Nel corso degli anni Novanta i musicisti italiani rimescolano le carte dell’invettiva jazzistica tirandone fuori un corollario di infinite possibilità; a contare, al di sopra di tutto, è la capacità di afferrare ogni segnale captato nel macrocosmo musicale per dargli una propria forma ed espressione, a prescindere da generi e sottogeneri da etichettare come prodotti a scatola chiusa. I “vecchi” stili del jazz, d’altronde, possono essere reimmaginati, decomposti e ricomposti senza intaccarne lo spirito originale.
Tale tendenza va osservata a posteriori tenendo conto della rinnovata fisionomia multiculturale dei centri urbani, che in quel periodo, a causa del fenomeno migratorio, si va gradualmente configurando. A differenza di ciò che accadeva in precedenza, non si impone più la necessità di viaggiare per scoprire tradizioni, culture e musiche globali, si possono rintracciare nelle strade, tra la gente, nei mercati, negli spazi di aggregazione legati alla quotidianità delle città europee. L’esposizione al mutamento di incontro col “diverso”, in un contesto di ineluttabile convivenza in via di costruzione, influenza, anche in maniera inconscia, l’artista spinto a trovare o ritrovare una propria sfaccettata identità per conoscere e riconoscersi nel caleidoscopico frame culturale. In effetti è nel decennio degli anni Novanta che l’arte inizia a diventare realmente globale, e il jazz italiano non rimane di certo insensibile a tale processo facendo sua la spinta all’ibridazione, parola d’ordine nella ricerca stilistica e formale nei disparati campi di applicazione.
L’improvvisazione di ispirazione hard-bop, soul jazz e free viene inserita all’interno di quadri sonori composti da groove tribali, ritmiche hip-hop, dancefloor e latinoamericane, cellule melodiche mutuati dal pop, dalla musica balcanica, africana o della tradizione del canto popolare italiano. Non ci sono confini o barriere, del resto perché dovrebbero esserci in una visione globale post Muro di Berlino, nel quale l’Est si mescola con l’Ovest e viceversa. A marcare la differenza sul piano dell’accesso a nuove ed inaspettate possibilità, ancora in fase di osservazione e studio, gioca un ruolo non trascurabile anche l’evoluzione rapida delle tecnologie, non più catalogata in decenni ma in anni, se non mesi. L’armamentario strumentale a disposizione del musicista-compositore si presenta rispetto agli anni Ottanta di più facile uso e consumo in termini di manipolazione, affidabilità e trasporto e, aspetto non secondario, di accesso a prezzi contenuti. Le combinazioni di suoni elettronici, effetti, campionature di ritmi e frammenti melodici, si pongono come una strada da percorrere parallela a quella acustica, per scovare soluzioni timbriche dalle sfumature non definibili e, per tale motivo, in grado di essere plasmate per renderle aderenti alla propria sensibilità tecnica e compositiva. Ed è proprio l’intreccio tra tecnologia avanzata e assorbimento della multiculturalità all’interno della società italiana a determinare il passaggio del jazz italiano verso il nuovo millennio.
Protagonisti di questo nuovo processo sono un gruppo di giovani che si affacciano alla ribalta della scena jazzistici italiana, alcuni di questi sono: Fabrizio Bosso, Gabriele Mirabassi, Giuseppe Bassi, Fabio Accardi, Stefano Bollani, Gaetano Partipilo, Gianluca Petrella, Rosario Giuliani, Nicola Conte, Daniele Scannapieco, Julian Oliver Mazzariello, Luca Mannutza, Lorenzo Tucci, Pietro Ciancaglini.
La nuova generazione di musicisti degli anni Novanta si sovrappone a quella dei più attempati Maestri del jazz italiano, da cui tanto assimilano mettendosi in “ascolto”, suonando e collaborando. Questo permette loro di tracciare una personale linea di continuità col passato senza smettere di guardare al futuro. La dimensione globale, inoltre, permette ai musicisti di attingere al panorama musicale extra-jazzistico con una differente consapevolezza, senza remore di carattere aprioristico dato da sorpassati arroccamenti sui bastioni della purezza di genere. Le riletture in chiave jazzistica di brani pop eseguite dal trombettista americano Miles Davis negli Ottanta sono diventate ormai per il jazzista degli anni Novanta pratica normale, se non necessaria, per avere a disposizione una più ampia gamma di soluzioni discorsive e interattive da sottoporre ad un pubblico eterogeneo: sotto lo strato profondo della destrutturazione armonica del brano l’ascoltatore-spettatore ritrova la cellula melodica-guida per farsi accompagnare nel viaggio dell’improvvisazione. Ne sono un esempio i lavori discografici dei pianisti statunitensi Brad Mehldau e Herbie Hancock, per citarne due.
In Italia sono i Doctor 3, trio formatosi alla fine degli anni Novanta su iniziativa dal pianista Danilo Rea, il contrabbassista Enzo Pietropaoli e il batterista Fabrizio Sferra, a porsi in poco tempo all’attenzione di pubblico e critica come i portabandiera di questo approccio trasversale, con album come “The Tales Of Doctor 3” (1998) e “The Songs Remain the Same” (1999) contenenti rivisitazioni di brani di Led Zeppelin, Beatles, Paul Simon, U2, Neil Young e altri, accostati a standard jazzistici e canzoni della musica leggera italiana. Come altri loro colleghi, appartenenti alla generazione dei jazzistici venuti alla ribalta tra gli anni Settanta e Ottanta, i tre componenti dei Doctor3 avvertono il bisogno di spostarsi verso altre direttrici musicali, allo scopo di rivitalizzare il loro bagaglio di esperienze acquisite; prendendo in prestito elementi del folk o del rock, essi stessi derivati del blues e del jazz, stanno, in effetti, chiudendo il cerchio, per aprirne subito un altro, senza soluzione di continuità.
In definitiva, il jazz italiano si affaccia al nuovo millennio facendo leva sulla capacità dei musicisti di aggiornarsi e rivalutarsi senza preconcetti, ritrovando, in qualche modo, quell’immediatezza e freschezza in parte perduta in precedenza. Nulla di nuovo se si osserva attentamente la storia del jazz, dirà qualcuno, ma non per questo meno sorprendente.
Paolo Marra
Nella foto (di Andrea Boccalini) il trombettista Fabrizio Bosso