L’esecuzione solistica rappresenta per il pianista il momento di massima espressione artistica durante il quale mettersi a nudo attraverso un dialogo interiore totalizzante; non si può fingere né ricorrere ad artefici esteriori per raccontare sé stessi, il proprio vissuto. Al contrario si deve fare affidamento sullo scorrere naturale di pulsazioni, pensieri, emozioni, percorsi immaginativi e schemi logici introiettati. Per tale motivo il piano solo è la diretta conseguenza di un’elaborazione critica cogente tramite cui il solista si misura con sé stesso, ribadendo o mettendo in dubbio a un tempo ciò che fino a quel momento si è fatto e pensato; un punto di arrivo e di svolta simbiotici, preludio ad un cambiamento o alla continuazione di una direzione presa. Certamente la performance solistica è una situazione complessa, che richiede preparazione ed impegno, per coniugare invenzione e capacità tecnica ed espressiva al fine di dare forma alla propria idea musicale; in questo caso il virtuosismo non basta, per comunicare con l’ascoltatore e arrivare ad un risultato sperato bisogna intessere un flusso dialogico sincero, profondo, coerente senza aver paura di far divenire le proprie fragilità esposte punti di forza. Quando questo avviene il piano solo si tramuta in esercizio liberatorio e catartico che investe la mente e i sensi.
Ogni pianista nel corso della sua carriera ha avvertito il bisogno di cimentarsi con tale tipologia di esecuzione in studio o in concerto prendendosi un momento di pausa, o meglio di riflessione, dal ruolo di leader o componente della sezione ritmica di un combo o di una formazione più allargata. I risultati, in alcuni casi, si sono rivelati eccellenti, testimoniati da dischi entrati di diritto nella storia del jazz moderno: “Conversation with Myself” di Bill Evans, “Thelonious Monk Alone in San Francisco“, “Open to Love” di Paul Bley, “Facing You” e “The Köln Concert” di Keith Jarrett, “Piano Improvisation” di Chick Corea, solo per menzionarne alcuni. Anche nel jazz italiano si ravvisano episodi in piano solo che hanno fatto la “differenza”, non soltanto per riguarda l’eccellente livello esecutivo ed inventivo del musicista coinvolto – preso successivamente a modello da altri dotati pianisti o epigoni – ma anche in riferimento alle situazioni contingenti, personali o storico-musicali, che hanno fatto da cornice all’esecuzione in studio. In questo articolo ci occuperemo in particolare di una tra le fondamentali incisioni in piano solo del jazz italiano, “The Day After The Silence” del pianista e compositore Enrico Pieranunzi.
Inciso nel 1976, nel pieno del fermento jazzistico che pervade la scena romana (promossa da giovani musicisti come Massimo Urbani, Enzo Pietropaoli, Roberto Gatto, Maurizio Giammarco), il disco è una personale ed intima rielaborazione della narrativa jazzistica della prima metà del ‘900, dalle origini del blues al be-bop, alle armonie modali, scaturita dall’ethos espressivo fatto proprio dal pianista a seguito dell’ascolto del lessico di Art Tatum, Fats Waller, Horace Silver, Chick Corea (con particolare riferimento all’album “Now he sings, now he sobs”) e del linguaggio hard-bop di McCoy Tyner. Infatti in quel periodo Pieranunzi scopre suonando di saper comporre, di poter dare finalmente un’identità ben precisa alle sue idee che si tramutano gradualmente in cellule melodiche, ritmiche, motivi, abbellimenti e via dicendo. Il processo non è causale, è una scrittura meditata dall’ascolto, come si accennava poc’anzi, dei dischi di jazz e blues che il padre, Alvaro, tiene in casa. Tra i primi chitarristi di blues in Italia, Alvaro Pieranunzi introduce il figlio alla scoperta delle radici del jazz moderno e a quello che si pone come trait d’union tra la tradizione delle origini della musica afro-americana e il be-bop, il sassofonista Charlie Parker. La linea di congiunzione tra il blues, identificata nella leggendaria e controversa figura di Parker, e la realtà del quartiere popolare, nella quale il pianista cresce e muove i primi passi nell’avvicinamento allo studio e pratica del pianoforte, risiede nell’ambivalente essenza di quella musica che viene da lontano, in cui convivono sfrenata gioia e tristezza, emarginazione e riscatto, solitudine e senso di appartenenza. Tutti caratteri rintracciabili nella realtà urbana di Roma, allora come oggi, che assumono nuova prospettiva agli occhi del giovane pianista, facendo apparire il blues come qualcosa di stranamente vicino al proprio sentire, difficile da spiegare a parole ma altrettanto chiaro quando a “parlare” è un pianoforte. Infatti l’incisione solista di “The Day After The Silence” incanala l’intera esperienza fino ad allora elaborata e messa a frutto dal pianista attraverso una serie di brani eseguiti con istintiva energia, giovanile fisicità e padronanza tecnica dovuta agli intensi studi classici al Conservatorio di Reggio Calabria terminati pochi anni prima. Come sovente succede nelle performance solistiche, Enrico Pieranunzi in maniera inconscia si spinge avanti nel tempo con la composizione ed esecuzione del brano “The Mood is Good”, suggerendo quelle caratterizzazioni della scrittura ancora al di là da venire, che diverranno un suo marchio di fabbrica, dall’incedere nostalgico, dalle atmosfere oniriche e trasognanti in dissolvenza, scandite in tempo di ¾. È proprio questo il caso in cui il solista assurge a figura sussidiaria dell’organico orchestrale in diretta corrispondenza del fatto di essere capace di utilizzare l’intera gamma timbrica dello strumento a sua disposizione, dal registro basso a quello alto, di trovare soluzioni armoniche differenziate supportate da una totale indipendenza delle mani ed un utilizzo straordinario della tecnica del walking bass mutuata dai padri del boogie-woogie e stride piano.
Il lavoro discografico d’altra parte si segnala come “estraneo” al panorama jazzistico italiano dell’epoca contrassegnato da un clima culturale politicizzato, monopolizzato dal free jazz e dai vari movimenti, manifestazioni, raduni e riviste vicine alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare. La musica che si pone al di fuori della politica viene guardata con sospetto, la si indica come reazionaria e, in aggiunta, il be-bop viene ancora additato come espressione del capitalismo americano. Ma Pieranunzi guarda oltre, non è che non sia interessato alla politica di sinistra, anzi, ma vuole seguire una precisa direzione senza farsi influenzare da mode o passeggere posizioni che poco hanno a che fare con la qualità della musica espressa. È degno di nota il fatto che da lì a pochi anni, col decennio degli anni Ottanta, il jazz italiano sarà invaso dalla fusion ma anche da altri approcci di libera improvvisazione sganciati dal messaggio ideologico-politico associato forzatamente a un modo di interpretare il free. A seguito di queste assunzioni di intenti “The Day After The Silence” si presenta come un’esecuzione solista senza tempo, non ancorata agli ismi del decennio degli anni Settanta, riassumendo così i valori canonici di ispirazione universale che dovrebbe assumere qualsiasi forma d’Arte.
Il disco pubblicato dall’etichetta Edipan del compositore e direttore d’orchestra Bruno Nicolai (collaboratore per molti anni del Maestro Ennio Morricone) riscuote un imprevisto successo di pubblico e critica sia in Italia che all’estero, in particolare in Francia, confermando le doti tecniche e di composizione di quell’intransigente e dotato ventisettenne pianista romano.
Paolo Marra