That first time at the Village Vanguard

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Esistono jazz club in cui l’alchimia creatasi tra i musicisti durante il momento concertistico sembra rimanere attaccata alle pareti dando luogo ad una sorta di magia ineffabile della memoria, che il tempo non può scalfire. Il tutto scaturisce dalle numerose storie umane e musicali che negli anni si vanno a sovrapporre in un unico spazio, nel quale ogni angolo, oggetto e odore rimane pregno di forti emozioni, di invenzioni irripetibili, di umanità condivisa, insomma di momenti unici incasellati nella lunga e spesso difficile carriera di un’artista.

Il Village Vanguard di New York è indubbiamente il luogo principe dove l’essenza stessa del jazz si materializza in performance live that have become legendary and culturally essential. Located in Greenwich Village, the "bohemian"In Manhattan, the Village Vanguard opened its doors in 1935 on the initiative of the jazz promoter and author, Max Gordon. In the first decades of activity, in addition to jazz musicians, the club hosts folk and blues singers, beat poets, painters, actors who gravitate around the New York alternative culture movement. From 1957, thanks also to the strong passion of Lorreine, Max Gordon's wife, the programming of the Vanguard will be dedicated exclusively to jazz music. Among the group of musicians who have followed one another on the stage of the diamond-shaped club we can mention: Horace Silver, Gerry Mulligan, Sonny Rollins, John Coltrane, Sidney Bechet, Bill Evans, Miles Davis, Thelonious Monk, Wynton Marsalis, Brad Mehldau, without forgetting the Thad Jones and Mel Lewis Orchestra, regular guests since 1965 every Monday evening. Over the decades, more than one hundred records have been recorded live in the New York club, some of these rising to status di vere e proprie pietre miliari della storia del jazz in conseguenza del radicale approccio innovativo all’agogica del materiale jazzistico: esempi emblematici sono “Sunday At the Village Vanguard” del pianista Bill Evans e “Live At the Village Vanguard” del sassofonista John Coltrane, entrambi del 1961.

A dare quel senso di immersione di tutti gli attori presenti, che siano musicisti o avventori, nello svolgersi in tempo reale dell’accadere musicale è la dimensione minuta del Vanguard; infatti entrati per il portone rosso ci si ritrova in un piccolo scantinato con tavoli e panche poste lungo le pareti, sulle quali spiccano vecchi strumenti e ritratti dei molti jazzistici che nel corso del tempo hanno calcato il palcoscenico del club. Al di qua dell’oceano, quello lo stesso rito intimista si ripeteva, nelle notti romane, al Music Inn di Pepito Pignatelli, locale dove i Maestri del jazz e giovani musicisti del posto suonavano insieme sul piccolo palco dell’umida saletta raggiungibile, come al Vanguard, scendendo una ripida scala. Dopo quasi quarant’anni, uno di quei jazzisti della scena romana, il pianista Enrico Pieranunzi, passerà sotto il canopy, la famosa tettoia esterna del Vanguard, per vivere un’esperienza inaspettata quanto straordinaria, suonare da assoluto protagonista là dove i suoi “eroi” musicali, ascoltati su disco da ragazzo in casa, avevano tenuto concerti memorabili.

Tutto ha inizio con una e-mail indirizzata nel 2009 dal batterista Paul Motian al pianista romano nella quale gli chiedeva la sua disponibilità a suonare nello storico club newyorkese insieme a Marc Johnson. I due musicisti avevano, d’altronde, collaborato in diverse occasioni, da quando avevano suonato per la prima volta in duo il 27 agosto del 1992 nell’ambito dell’International Jazz Festival “Rumori Mediterranei” a Roccella Jonica, per incidere in seguito diversi lavori discografici e tenere concerti in giro per il mondo in duo e in trio con il contrabbassista americano Marc Johnson. Ciò che maggiormente sorprende Pieranunzi, all’arrivo nella Grande Mela, è scoprire la Deus ex Machina celata dietro l’improvviso invito del collega statunitense: quella Lorraine Gordon diventata, in seguito alla morte del marito nel 1989, proprietaria del Vanguard, che ascoltando un brano del pianista trasmesso sulle onde di Radio Jazz aveva chiesto espressamente a Paul Motian di contattarlo per esibirsi nel suo club.

Come da tradizione, nel luglio del 2010 il trio rimane ospite del Vanguard per un’interna settimana, eccetto il lunedì sera, dedicata regolarmente alla “Vanguard Jazz Orchestra”. Da questa serie di concerti vengono selezionati otto brani che andranno a comporre l’album “At the Village Vanguard” pubblicato dall’etichetta CAM nel 2013, con l’apporto di uno dei migliori tecnici del suono del panorama jazzistico, l’americano James Farber; tra questi il classico be-bop “I mean you” di Thelonious Monk, la famosa composizione di Pieranunzi “Fellini’s Waltz”, “Subconscious Lee” di Paul Motian, fino ad arrivare all’omaggio alla felliniana Arte racchiusa ne “La dolce vita” del Maestro Nino Rota. Con questa incisione il pianista si ritaglia un posto d’onore nel panorama del jazz internazionale in virtù del fatto di essere l’unico musicista italiano nella veste di leader e uno dei soli europei – gli altri due sono i pianisti francesi Michel Petrucciani e Martial Solal – ad aver suonato al Vanguard.

Cinque anni dopo la prima esperienza concertistica, in occasione degli ottant’anni dalla apertura del famoso jazz club newyorkese, Enrico Pieranunzi viene invitato nuovamente dall’amica Lorreine Gordon e da sua figlia Deborah per esibirsi in concerto. Stavolta ad accompagnarlo in questa seconda avventura americana il pianista sceglie “to organize a quartet made up of some of the most prestigious musicians active on the New York scene”, il sassofonista Donny McCaslin, il contrabbassista Scott Colley e il batterista Clarence Penn. Il concerto al Vanguard del 2010 rimane, però, una perfetta “prima volta”, alla cui unicità contribuisce la triste scomparsa di Paul Motian, avvenuta nel novembre del 2011. Sullo sfondo della straordinaria esecuzione dei brani rimane quell’aura avvolgente che trasporta l’ascoltatore – come scrive lo stesso pianista romano – in quel “unimaginable dream that shapes reality as my fingers gave it to the sounds of the piano ”.

Paolo Marra

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