BEAUTY AND HARMONY OF SHARING

Fabrizio Bosso master cla at saint louisFabrizio Bosso è il jazz. Ed è unanimemente considerato, a livello internazionale, uno dei più grandi talenti musicali dei nostri tempi.
Enfant prodige, ha cominciato a suonare la tromba a cinque anni, da allora non ha mai smesso, arrivando a suonare anche trecento concerti in un anno. Chi lo ha sentito suonare anche solo una volta, non può non essere stato impressionato dalla straordinaria energia, vitalità e anche dal lirismo, che la sua tromba sa esprimere.

Eppure, si dice che il jazz sia un po’ in crisi, magari che sia diventato ripetitivo. Come sta il jazz?

Secondo me non è per niente ripetitivo. Certo, dipende sempre da chi lo suona e da chi lo ascolta, e da quanta voglia c’è di lasciarsi prendere da questo genere musicale che tra l’altro ha un sacco di sfumature. Sono altre le cose che sono in crisi. Anzi, credo che musicalmente il jazz stia vivendo un momento di grande vitalità, ci sono tanti giovani che suonano con ottimi risultati. Ci sono tante scuole che lavorano molto bene, tipo il Saint Louis a Roma o a Bari il Pentagramma e poi ci sono le cattedre ai conservatori. Poi, visto da dentro, dal punto di vista soggettivo, dipende sempre da quanto sei cosciente di quello che vuoi trasmettere al pubblico.

Il jazz è una musica che porta all’aggregazione anche rispetto al pubblico che ascolta?

Sì, ma dipende sempre dalla voglia che hai di comunicare e di unirti agli altri. Anche nel jazz, come in tutti gli ambienti, in alcuni casi ci può essere competizione, allora quando si sale sul palco, se prevale la voglia di primeggiare, l’aggregazione rischia di sbriciolarsi. Per me è importante la voglia di condividere. Quando salgo sul palco è fondamentale sentire quello che fanno gli altri e insieme a loro dare il massimo, piuttosto che primeggiare singolarmente. È quando si suona con la voglia di stare insieme che possono uscire cose veramente buone.

E infatti, nel jazz più che in qualsiasi altro genere musicale è importante l’interplay tra i musicisti, soprattutto nell’esecuzione dal vivo.

L’interplay è sempre necessario, ma nel jazz gioca un ruolo cardinale. Anche un assolo riesce in base agli stimoli che possono darti gli altri musicisti. Se manca questo è difficile creare qualcosa di concreto. È ovviamente importante conoscere bene il linguaggio del jazz, ma poi è importante anche la contaminazione con altri generi musicali, che possono arricchirti e darti ispirazioni nuove.

Il jazz è certamente pensato per l’esecuzione dal vivo, ma lei che relazione stabilisce con il pubblico e quanto la influenza?

È ovvio che quando senti che il pubblico sta dalla tua parte questo facilita le cose, ma di-pende da come stai tu psicologicamente. Prima di tutto però è importante vedere che coesione c’è con gli altri strumentisti. Poi se c’è una buona reazione in platea, allora il concerto lo fai in crescendo, in un certo senso lo fai proprio insieme al pubblico.

Un jazzista, a differenza degli altri musicisti, quando suona il suo assolo fa una cosa spericolata, si lancia senza rete.
Si deve adattare a tutto quello che gli accade attorno. È un po’ come nella vita, usciamo di casa e dobbiamo adattarci a quello che incontriamo. Lanciarsi nell’assolo le provoca una vertigine, un brivido, oppure le dà più un senso di libertà?

Come dico sempre, per me suonare il jazz, improvvisare, è un’esperienza di libertà, però con delle regole da rispettare e di cui devi avere consapevolezza. È vero, è un po’ buttarsi senza rete.
Ma in realtà una rete sotto c’è sempre, se hai studiato e sei convinto di ciò che stai andando a eseguire. Secondo me la grande libertà te la puoi prendere, ma quando hai delle fondamenta ben solide. Tecnicamente un margine di rischio c’è sempre, hai delle note nella testa e le devi far suonare dallo strumento.
Però questo è anche un po’ il bello del jazz.

Queste regole sono il linguaggio musicale, con cui lei esprime qualcosa. Ma è sempre la stessa cosa o ogni volta è diversa?

Sicuramente lo stato d’animo, la sinergia che si crea sul palco con gli altri musicisti e la relazione che si crea con il pubblico sono tutte cose che influiscono sull’esecuzione. Ogni volta può accadere qualcosa di diverso, già dall’esposizione del tema e non soltanto nell’assolo. Credo che sia proprio la forza e la bellezza di questo genere musicale, che ti permette anche su un tema, magari famoso che hanno suonato già migliaia di persone, di metterci qualcosa di personale, con la tua intenzione, la tua interpretazione.

Esce in questi giorni il suo ultimo lavoro «We Wonder», che presenterà all’Auditorium il 7 gennaio e in cui rende omaggio al genio di Stevie Wonder. Da dove le viene l’idea di reinterpretare la sua musica?

La musica di Wonder è sempre stato un grande amore fin da quando ero bambino. Sono cresciuto con la sua musica, oltre che con quella dei grandi cantautori italiani, e poi ovviamente con il jazz. Ho cominciato a tentare le mie prime improvvisazioni proprio su questi dischi. Inoltre, trovo che Wonder sia non solo geniale come cantante, ma è un grandissimo compositore e arrangiatore. Anche melodie apparentemente facili e orecchiabili, in realtà hanno una costruzione armonica e un’idea ritmica incredibili, che negli anni Settanta erano già assolutamente all’avanguardia. E poi Wonder ha una straordinaria maestria nel muoversi tra vari generi musicali diversi, dalla musica brasiliana, al soul, al jazz, al funky. Tra i tanti suoi bellissimi brani, ne ho selezionati alcuni ed è stato davvero divertente e stimolante misurarsi con una musica così forte.

La musica di Wonder è molto strutturata, anche a livello di arrangiamenti. Questo per lei è stato un limite oppure un’opportunità?

Sicuramente è stata un’opportunità. Abbiamo creato delle strutture leggere in cui poterci muovere in maniera agile, lavorando molto sull’interplay per realizzare un dialogo tra i musicisti (Julian Oliver Mazzariello al piano, Jacopo Ferrazza, contrabbasso e basso elettrico, Nicola Angelucci alla batteria, guest Nico Gori, al clarinetto e sax tenore). In realtà ho pensato il disco proprio per poterlo suonare agilmente dal vivo, quindi garantendo la massima libertà nell’esecuzione.

Per chiudere, a un ragazzo che si avvicina alla musica, che cosa può insegnare il jazz?

La fratellanza, la ricerca di una coesione, lo stare insieme. Per fare del buon jazz, qualcosa di forte e di comunicativo può uscire solo con l’intenzione di tutti i musicisti che suonano insieme in quel momento. L’intenzione di volersi bene, volere il bene dell’altro e insieme costruire qualcosa di bello.

Nicola Bultrini
Infostampa S.r.I.s.